sabato 15 settembre 2012

LO STATUTO ALBERTINO E LA DISARMONIA STORICA DEL DIRITTO -Continuazione 6-


La fonte del diritto del nascente Stato liberale italiano fu lo Statuto del Regno o Statuto Fondamentale della Monarchia di Savoia, noto universalmente come Statuto Albertino dal nome del re che lo concesse (carta ottriata) e lo promulgò: Carlo Alberto di Savoia, Statuto, poi  adottato dal Regno sardo-piemontese il 4 marzo 1848. Nel preambolo autografo lo stesso Carlo Alberto definisce lo Statuto come «Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia sabauda». Il 17 marzo 1861, con la fondazione del Regno d'Italia, divenne la carta fondamentale della nuova Italia unita e rimase formalmente tale, pur con modifiche, fino al biennio 1944-1946 quando, con successivi decreti legislativi, fu adottato un regime costituzionale transitorio valido fino all'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, il gennaio 1948. Lo Statuto Albertino, nonostante non abbia natura di fonte legislativa sovraordinata alla legge ordinaria, può essere considerato a tutti gli effetti un primo esempio di costituzione breve.
Lo Statuto riveste una importanza fondamentale per decodificare la tendenza “ambigua” della cultura giuridica italiana la quale sceglie la forma e penalizza la sostanza preferendo non concedere diritti all' individuo ma lasciarlo immerso nella presunzione dei diritti. I diritti vengono enunciati poichè giustificano la stessa esistenza giuridica la quale è il vero motivo dei diritti subiettivi individuali trattati poi specificamente dalle leggi. Per sintetizzare: i Principi vengono enunciati formalmente poi le leggi li rendono espliciti e godibili,li negano o li annunciano formalmente ma non vengono sostanziati. In Italia si svilupperà una lunga tradizione di diritti, enunciati nel Principio ma negati nella sostanza. L’inquadramento delle disposizioni statutarie e della successiva evoluzione legislativa entro un modello squisitamente statualistico, che, nella formulazione dello Statuto ha ormai abbandonato ogni suggestione giusnaturalistica, appare chiara nella dottrina dell’epoca dello Statuto stesso. Lo Statuto è la fonte che stabilisce i diritti in modo che ogni persona si trova limitata, ma garantita al tempo stesso,  nelle sue attività da due punti di vista: verso le altre persone private e verso la persona collettiva pubblica. 

Il diritto nazionale nel suo grande complesso armonico prefigge e determina sfere d’attività del privato verso il privato, sfere d’attività del privato verso il Governo, e sfere d’attività del Governo verso il privato. È quindi lo Stato che con il diritto oggettivo, ovvero con la legge, crea la titolarità dei diritti e dei doveri in capo ai cittadini, non solo nei confronti degli altri privati ma anche nei confronti dello Stato stesso. Si tratta, come accennato, di una concezione strettamente statualistica che ben poco concede agli altri due approcci teorici (storicistico e individualistico) in materia di diritti di libertà: diritto positivo che oscura il diritto naturale. In Italia questa situazione sarà ancora più grave perchè questa strategia che addita i diritti ma non li concede produrrà una società immobile e in balia di poteri altri dallo Stato, capaci di organizzarsi come meglio credono in quanto non c' è nessuna comunità, sul territorio, forte ed emancipata da costituire un modello valido. Soltanto in seguito all’affermarsi del regime fascista e della politica liberticida che il medesimo, da subito, mostrò di voler perseguire, ci si accorse di quanto forieri di conseguenze funeste fossero gli sviluppi non solo legislativi, ma anche scientifici dei decenni successivi all’entrata in vigore dello Statuto. Se lo Statuto avesse avuto sostanza e non forma di diritto probabilmente non ci sarebbe stata quella regressione giuridica e di civiltà realizzata con il regime fascista e non ci sarebbe stata l' abitudine alla regressione civile che è una costante derivata dalla politica di governo dello Stato italiano che fa precipitare sempre la società in vuoti di civiltà che saranno una costante dal periodo post-unitario a oggi.
PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA
Si può portare come esempio di vuoto di civiltà la riflessione intorno al Principio di eguaglianza:
Art. 24.dello Statuto - Tutti i regnicoli (abitante naturale di un regno in rapporto ai diritti di cui può godere), qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi-
Pur nella sua accezione di mera eguaglianza in senso formale, il principio sancito dall’art. 24 dello Statuto ha conosciuto palesi violazioni sia da parte del legislatore del periodo liberale, che, successivamente, da parte di quello fascista.
Si pensi, innanzitutto alla disciplina dei rapporti tra uomo e donna, che si presenta come ispirato, per molti versi, all’opposto principio della diseguaglianza giuridica. Ciò vale, in primo luogo, per il diritto di voto, riservato ai soli cittadini di sesso maschile ma vale anche per quanto disposto dal codice civile del 1865 e dal coevo codice di procedura civile, in base ai
quali la donna non poteva, in linea di principio, esercitare l’ufficio di tutore, di protutore e di curatore (art. 268 c.c.), né quello di testimone negli atti di stato civile (art. 351 c.c.) e nei testamenti (art. 788 c.c.). Parimenti, la donna era esclusa dall’ufficio di arbitro nei compromessi (art. 10 c.p.c.).
Limitazioni ancora più significative erano poste a carico delle donne sposate: queste non potevano assumere una cittadinanza diversa da quella del marito, anche in caso di separazione personale (art. 10, legge n. 555/1912) e perdevano la cittadinanza italiana in caso di matrimonio con uno straniero (art. 11; viceversa, la donna straniera acquistava la cittadinanza italiana a seguito del matrimonio con un cittadino: art. 10, comma 2); erano tenute a risiedere nel domicilio del marito; non potevano, senza l’autorizzazione di quest’ultimo, donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi assicurazioni, transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti (art. 134 c.c. 30 1865), accettare mandati (art. 1743), esercitare attività commerciali (art.13 cod. commercio). A queste, si debbono aggiungere le limitazioni al diritto di educare i figli e di amministrare i beni, che erano imposte alle donne che passavano a seconde nozze (artt. 237 e 239 c.c. 1865).
Tali discriminazioni subirono solo un parziale temperamento con la
legge n. 1176/1919 che abolì l’istituto dell’autorizzazione maritale di cui agli artt. 134 e 1743 c.c. e 13 cod. commercio, sopprimendo, altresì, l’art. 268 c.c. (gli artt. 351 e 788 erano già stati abrogati con la legge n. 4167/1877). La stessa legge ammise la donna ad esercitare tutte le professioni ed a ricoprire tutti gli impieghi pubblici, fatta eccezione per quelli che implicassero l’esercizio di funzioni giurisdizionali o l’esercizio
di diritti politici, ovvero che attenessero alla difesa militare dello Stato (art. 7; peraltro, un regolamento del 24 novembre 1933 limitò drasticamente l’ammissione di personale femminile nelle pubbliche amministrazioni).
Forti disuguaglianze tra uomo e donna nel diritto di famiglia rimasero anche nel codice civile del 1942. Esso assicurava, infatti, al marito una posizione assolutamente preminente sia nei confronti dei figli (l’art. 16 stabiliva: «Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino alla maggiore età o all’emancipazione. Questa potestà è esercitata dal padre. Dopo la
morte del padre e negli altri casi stabiliti dalla legge essa è esercitata dalla madre»), sia nei confronti della moglie (l’art. 144, relativo alla potestà maritale, stabiliva: «il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza»).
Ma le violazioni del principio di eguaglianza ad opera del legislatore fascista non si fermano qui: oltre alla legislazione razziale ed a quella contro gli oppositori politici (sulle quali, si vedano, rispettivamente, i parr 2.12.1 e 2.16.1) si deve qui accennare agli aberranti provvedimenti contro i celibi, varati al fine di assecondare la politica di incremento demografico e di
difesa della razza”, che fu uno dei capisaldi del regime (si veda anche il Titolo X del Libro II del codice penale del 1930 relativo ai “delitti contro l’integrità della stirpe”, ed in particolare l’art. 553, che puniva la propaganda dei mezzi anticoncezionali). Tali provvedimenti culminarono nella previsione di una imposta speciale sui celibi di età compresa tra i 25 ed i 65 anni «per il solo fatto del loro stato» (art. 1, r.d. n. 2132/1926. Successivamente, in epoca fascista, la legge n. 2693/1928, introdusse l’obbligatorietà del parere del Gran Consiglio del Fascismo per i disegni di legge in materia costituzionale, cosicché parte della dottrina ritenne che, in mancanza di tale parere, le leggi dovessero essere ritenute invalide (peraltro, di tale opinione non vi fu alcun riscontro nella prassi giurisprudenziale).
Questa disarmonia fra diritto formale e sostanzialità del godimento dei diritti, dichiarati nei Principi, diventerà una costante della storia del diritto che ritroviamo anche dopo la Costituzione della Repubblica Italiana  approvata dall'Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947. Fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il  gennaio 1948. Anche per la realizzazione legislativa del dettato Costituzionale si può parlare di un periodo di congelamento del diritto sovraordinario e di disarmonia storica fra forma e sostanza.


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